Questa è casa mia e qui comando io

Questa è casa mia e qui comando io

In provincia di Milano un parroco vieta l’ingresso in chiesa ai Rom. Il cartello affisso fuori non lascia scampo a equivoci.

Sara De Santis
martedì 3 luglio 2012

«A causa di ripetuti furti gli zingari non possono entrare». Il luogo dove è stato affisso pochi giorni fa questo cartello stupisce più del suo contenuto. Si tratta di una parrocchia, la casa di Dio e della carità, nello specifico la chiesa di San Silvestro a Ronchetto sul Naviglio, in provincia di Milano. I nomadi sono stati avvisati dal parroco don Alberto, il quale è arrivato al limite di sopportazione, dopo ripetuti atti che hanno disturbato i fedeli. Li chiama zingari, in un’intervista li definisce rom e fa cenni ad alcuni romeni arrestati l’anno scorso per furto. Non manca la confusione, visto che rom e romeni sono cosa ben diversa e zingari, abitualmente usato come termine dispregiativo, rappresenta genericamente i nomadi e non necessariamente ne identifica l’etnia. I rom (si deduce che siano loro i colpevoli) hanno oltrepassato la misura tentando di rubare gli zainetti di alcuni bambini che si trovavano in oratorio. Degli adulti presenti hanno evitato il peggio, inseguendo i ladri e recuperando il modesto bottino. Il parroco non ha denunciato l’accaduto, ma ha deciso di esporre il divieto: non possono più entrare in oratorio. Ma in chiesa sì (a nessuno viene negato il diritto di lasciare un obolo durante l’offertorio).

Come in tutte le forme comunitarie, dalle più strutturate alle più liquide, il comportamento di alcuni non rappresenta il comportamento di tutti. La messa al bando di don Alberto colpirà anche chi avrà davvero bisogno di quell’oratorio. E’ evidente l’assenza di dialogo tra la comunità cattolica e quella nomade, se la prima si occupa di raccogliere i vestiti per i poveri e la seconda, anziché chiederglieli – in quanto povera – li prende di nascosto. Chissà come si starà rigirando nella tomba don Bosco, il creatore degli oratori, che non li riempiva certo di ragazzi di buona famiglia.

Ciò che lascia più perplessi è l’atto compiuto proprio da chi fa della carità, dell’amore al prossimo, dell’accoglienza il proprio cavallo di battaglia. Che la vita accanto ai nomadi sia complessa non v’è dubbio. E’ plausibile che chi vive nella casa con le fondamenta radicate nel terreno ritenga ingiusto che il nomade della roulotte accanto gli rubi la corrente. D’altro canto, è auspicabile che la chiesa apra la sue porte ai peccatori e insegni loro, con misericordia, come convivere con il proprio prossimo. Proprio i cristiani che hanno patito il martirio e la persecuzione (e talvolta accade ancora oggi) dovrebbero sapere cosa vuol dire essere vittime dell’incomprensione. Eppure sono proprio loro a lamentarsi del diverso.

In questi giorni Benedetto XVI annuncia che, don Pino Puglisi, prete vittima di mafia, sarà fatto beato e presumibilmente presto sarà santo. Non avendo compiuto alcun miracolo, il motivo risiede nella sua vita e nella sua tragica morte, segnata per l’appunto dal martirio e dalla persecuzione. Fintanto che si è perseguitati per fede si diventa beati. Se la persecuzione è generata da altro genere di motivazione, allora è giustificata. Il paragone non è da farsi assolutamente con la figura mirabile di don Puglisi, ma con il concetto di martirio e di carità, ciò che la chiesa insegna e (in taluni casi) rappresenta. Don Ciotti, a proposito del prete palermitano, dice che «ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere. Con la sua testimonianza don Pino ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio». E’ difficile associare queste stesse parole alla figura di don Alberto della parrocchia di San Silvestro, che avrà preso pure la drastica decisione per proteggere i beni materiali dei propri fedeli, ma di certo non ha saputo dare il giusto esempio alle loro anime.

di Sara De Santis

da Cronache Laiche