La macchina della giustizia ha le gomme a terra
Un detenuto di Regina Coeli non ha potuto essere presente alla discussione della sua tesi di laurea: gli è stato negato il permesso di uscire dal carcere romano. È curiosa la vicenda perché non sembra ci siano giustificazioni gravi tali da negare questo diritto. Il protagonista, che da cinque anni sconta la sua pena, si è iscritto tre anni fa alla facoltà di Lettere e filosofia all’Università di Roma Tre. Dopo aver sostenuto brillantemente 20 esami, ha preparato una tesi sull’analisi di disegni e scritti realizzati dalle vittime della Shoah nei campi di sterminio nazisti. I giudizi sulla condotta del quarantenne sono stati estremamente positivi sia dalla direzione del carcere sia dal Garante dei detenuti, Angelo Morroni, che per l’occasione si era anche offerto di accompagnare il laureando all’università. Nonostante ciò, in carcere c’era aria tesa. La risposta alla richiesta del permesso di qualche ora per recarsi in facoltà tardava ad arrivare, tenendo in sospensione il detenuto, la sua famiglia, il carcere, l’ufficio del Garante dei detenuti e la facoltà stessa. Solo il giorno della laurea è giunto il niet del Tribunale di sorveglianza.
La motivazione ufficiale del diniego risiede nella mancanza di legittimità della richiesta, poiché il detenuto era in attesa dell’esito dell’impugnazione del rigetto di un permesso richiesto a gennaio. L’esito che tarda ad arrivare, dovuto alla complicata situazione del Tribunale di sorveglianza di Roma e la usuale durezza nelle decisioni «verso chi deve scontare la pena e non merita un ulteriore grado di giudizio» sono secondo il Garante dei detenuti del Lazio, le reali motivazioni di questo divieto «incredibile e avvilente». Lo sconforto di fronte alla decisione del magistrato è forte, il Garante Angelo Morroni si sfoga dicendo che «questa vicenda è uno schiaffo all’impegno di tante persone che sul recupero sociale dei detenuti investono molto. Per garantire il lieto fine non sono bastate le relazioni positive di chi con quest’uomo lavora quotidianamente, né i motivi di risocializzazione e di riscatto culturale. E, come degna conclusione, Simone (nome di fantasia, ndr) ci ha ufficialmente detto di non volersi più laureare in carcere. Aspetterà di farlo fra un anno, quando sarà un uomo libero».
In questa storia amara si scopre comunque un lato positivo nella vita segreta delle carceri italiane, cioè il lavoro appassionato di strutture e persone che operano per il reinserimento e la rieducazione dei detenuti. Queste però sono perle rare, che spesso si scontrano con la macchina burocratica e con l’intero sistema giustizia italiano, che pare non trovare mai strade di miglioramento. In uno studio svolto dal massmediologo Klaus Davi, presentato assieme al deputato del Pdl Alfonso Papa alla Camera dei deputati lo scorso 19 luglio, risulta che la stampa estera abbia un pessimo giudizio sulla giustizia italiana. Emerge che è fuori controllo il sovraffollamento delle carceri, dovuto in particolare alla carcerazione preventiva, in seguito alla quale circa 28mila sono i detenuti in attesa di giudizio che risiedono nelle celle italiane. Altro dato sconcertante che riporta anche il Guardian in uno studio che esamina gli anni dal 2002 al 2012, sono i mille detenuti morti per cause non naturali di cui il 56 per cento dovute a suicidi. Il rapporto di Klaus Davi riferisce anche delle condizioni di vita che sono poco dignitose per un essere umano, dalle celle sottodimensionate, alla mancanza di igiene, alle strutture fatiscenti. Le case circondariali italiane con la valutazione peggiore sono Rebibbia a Roma, Poggioreale a Napoli e l’Ucciardone a Palermo.
Le responsabilità risultano essere attribuite quasi totalmente alle istituzioni, che in questo caso s’intende solo la politica. All’estero appare che i governi che si sono succeduti, senza distinzione di colore politico, non abbiano mai dato contributi significativi al miglioramento della disastrosa situazione della macchina della giustizia.
È confortante, però, sapere che sono stati rilevati anche casi di eccellenza come Opera a Milano, che si distingue per le misure di sicurezza, il carcere di Velletri per le possibilità di lavoro e il carcere di Volterra, che ha sviluppato un laboratorio teatrale interessante e di spessore, che ormai abitualmente si confronta con festival e realtà artistiche “normali” a livello professionale. Altre eccellenze lodate sono le tecniche adottate per la lotta alla mafia, l’autonomia della magistratura e diversi casi giudiziari che si sono chiusi in modo esemplare.
Questa è l’opinione di cento testate di stampa estera, che, anche se farcita di ovvi pregiudizi, è davvero importante per fare luce su temi che troppo spesso la politica e l’informazione italiana giudicano (di fatto) di poco interesse. E’ presumibile che se ci fosse la giusta eco sulle situazioni complesse dei detenuti e delle case circondariali, il caso del laureato mancato di Regina Coeli avrebbe fatto più scalpore e avrebbe avuto maggiore appoggio dall’opinione pubblica. C’è ancora un grosso deficit culturale in Italia riguardo alla percezione dei diritti dei detenuti, che per fortuna sta cominciando ad essere colmato, grazie ad esempio ad iniziative come quella del professor Pugiotto che, con 120 docenti universitari, ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica. I professori hanno chiesto di intervenire sulla spinosa situazione della giustizia penale e della condizione carceraria italiana e Napolitano in questi giorni ha risposto (anche se non a tutto). Servono poi a smuovere le coscienze e i tribunali purtroppo casi gravissimi, come quello di Stefano Cucchi. Il danno irreparabile fatto a Cucchi in carcere, che l’opinione pubblica recepisce di pancia più che di testa, può aiutare a comprendere che prima che colpevoli, i detenuti sono persone.
Sara De Santis