Muori pure, ma non abortire
Due storie molto diverse accomunate dallo stesso tragico destino: divieto di scegliere. In Turchia, Nevin Y’nin, una ragazza di 26 anni, sta scontando in carcere una pena per omicidio. Poco tempo fa, ha ucciso brutalmente l’uomo che per mesi l’aveva stuprata e minacciata. Nevin, già madre di due bambini, ha scoperto da detenuta di essere incinta. Del figlio del suo dramma non vuole saperne. Si trova ora al quinto mese di gravidanza e, poiché la legge non le consente di abortire, ha minacciato di suicidarsi.
In Turchia l’aborto è legale entro le prime dieci settimane di gravidanza. A maggio di quest’anno il primo ministro turco Tayyip Erdogan ha dichiarato che «l’aborto è un omicidio» e da allora si sta muovendo per rendere difficile, se non impossibile l’aborto. Dal mese di luglio è scattato il divieto di vendere il Misoprostol, farmaco usato per l’interruzione di gravidanza senza rischi (ma anche per il trattamento di emorragie post-parto), mentre è in preparazione una nuova legge sull’aborto che prevede ulteriori restrizioni, come rendere illegale l’interruzione praticata dopo la quarta settimana di gravidanza. Visto che una donna difficilmente scopre di essere incinta entro la quarta settimana, l’aborto (legale) sarà praticamente impossibile.
Con la legge attuale e il clima antiabortista che si respira in Turchia, è davvero improbabile che Nevin possa interrompere la gravidanza e la sua tragica storia acquista toni ancora più drammatici. Considerato il livello di disperazione che già in passato aveva mosso le sue azioni, è molto alto il rischio che muoiano sia lei che il feto.
Morire assieme al feto è esattamente ciò che è successo alla sedicenne Esperanza Hernandez nella Repubblica Dominicana. Anche la storia di Esperanza è intrisa di disperazione e rabbia. La ragazza era incinta e malata di leucemia ad uno stadio avanzato. Per salvarle la vita era necessaria la chemioterapia, ma il trattamento avrebbe causato quasi sicuramente la morte del feto. I medici di norma in queste situazioni procedono con un aborto terapeutico, ma in questo caso si sono rifiutati per paura di essere denunciati. Nella Repubblica Dominicana l’interruzione di gravidanza è vietata. Si è costituito quindi un comitato bioetico per decidere cosa fosse meglio fare, ma nell’attesa Esperanza è morta e con lei il suo bambino.
Il Congresso nazionale della Repubblica Dominicana nel 2009 ha inserito nella Costituzione un articolo che stabilisce che «il diritto alla vita è inviolabile dal concepimento alla morte. Non si potrà stabilire, pronunciare o applicare, in alcun caso, la pena di morte». Se da un lato, quindi, è stata abolita la pena capitale, dall’altro, parlando di concepimento, è stato vietato l’aborto. La legge è stata fortemente voluta dall’arcivescovo di Santo Domingo, che fino a poco prima della votazione, esortava i legislatori a fare «ciò che tutto il Paese vuole, ciò che la Chiesa cattolica e gli altri cristiani vogliono». Adesso c’è il dubbio che tutto il Paese, i cattolici e i cristiani vogliano davvero una legge così. Nel caso di Esperanza il diritto alla vita è stato compromesso dal diritto alla vita del feto, che ha portato alla morte di entrambi. Le parole della madre della ragazza, Rosa, esprimono bene il dolore sconfinato di fronte a questa ingiustizia. «La vita di mia figlia veniva prima. So che l’aborto è un crimine e un peccato, ma ora mi hanno uccisa perché lei era la mia ragione di vita».
Quale accanito antiabortista saprà spiegare alla signora Rosa Hernandez e ai figli di Nevin Y’nin chi ha più diritto di vivere?
Sara De Santis