
Philip Seymour Hoffman è morto il 2 febbraio scorso. Quell’attore di cui la maggior parte delle persone ricorda il volto, ma non il nome. Vuoi per via del doppio nome che a noi italiani risulta un po’ difficile da pronunciare, vuoi perché era un attore così eclettico che non sempre era facile da riconoscere.
Sono due giorni che ripenso alla sua morte e, soprattutto, penso al perché io sia ancora così turbata.
Hoffman è morto a 46 anni per overdose di eroina,nel suo bagno. L’eroina mi collega automaticamente a un senso di degrado, non solo fisico e mentale, ma anche materiale. L’eroina che ti porta a perdere tutto e a volere solo lei. E il bagno di un appartamento di Manhattan non è il bagno di Trainspotting. Questa morte mi capovolge. Mi stravolge quelle poche certezze che ho. Mi racconta di una droga che c’è ancora, di tante droghe che ci sono ancora. Negli ultimi tempi, se parlo di droga lo faccio distinguendo quelle pesanti da quelle leggere e quali sono accettabili e quali no e Breaking Bad ha una sua morale e bla bla bla. Anch’io mi sono persa nella teoria. Eppure c’è gente che nel 2014 muore di droga. Veramente, non in teoria.

Quando facevo volontariato in una comunità di recupero, ricordo la sensazione di divario gigantesco tra me e i ragazzi che la abitavano. Loro erano convinti che io non potessi capire. Se non l’hai provata non puoi capire, non me lo dicevano, lo vivevano. Ma tutti coloro che non la provano, per capire, non devono certo farne uso. Quello che facevo io, nel mio piccolo mondo di incertezze, era entrare in comunicazione con il loro dolore. E io il dolore lo conoscevo. Lo conosciamo tutti. Il dolore è democratico.
[In fondo in fondo, andavo lì per esplorare il mio dolore e quei ragazzi capivano anche questo. E mi volevano bene. E ci aiutavamo a vicenda. E chissà oggi che fanno, mentre io qui mi stupisco di nuovo di un morto di overdose e neanche ricordo i loro nomi.]
Quello che mi turba della morte di Philip Seymour Hoffman è che era un attore. Non un attore qualunque, un attore prodigioso, un artista vero. Lo sanno tutti, perché quando una persona eccelle non c’è bisogno di essere tecnici per capire. Come non hai bisogno di drogarti per capire che è meraviglioso e terribile insieme. Lo vedi, lo sperimenti attraverso la pelle dell’altro. Ecco, un attore bravo fa questo: sperimenta attraverso la pelle dell’altro e la propria, senza davvero drogarsi. Non dev’essere un assassino per interpretare Macbeth.

Mi hanno insegnato che un attore è bravo quando è convincente, vero, anche se vero non è. Un attore è un artista quando ti regala un pensiero che traduce in immagine, in suono, in parola e lo spettatore gode di questo, perché viene toccato nelle corde più intime, quando attiva il suo proprio pensiero ed è libero di interpretare ciò che vuole.
Il lavoro interiore per arrivare ad entrare in connessione totale con quell’emozione è devastante. Ti annulli e contemporaneamente esisti. Sei e non sei. Sei tu e sei il personaggio, l’azione, il momento, la storia. Molti artisti sono provati da quest’esperienza così totalizzante. Il rischio è di perdersi. Molti si perdono. Molti utilizzano l’arte per ritrovarsi, ogni tanto, ma nella vita restano comunque dei disperati. Continuare a inseguire l’arte, starci dentro, donarla e volerla possedere, senza capire niente ed è meraviglioso e terribile. E non puoi farne a meno.

Ho capito che sono turbata dalla morte di Hoffman perché non gli è bastato essere un grande artista. Non parlo del successo, dell’oscar, dei soldi. Parlo proprio di quella linfa vitale che è l’arte, che ti distrugge e ti ricrea. Lui evidentemente, esattamente come quei ragazzi conosciuti in comunità, aveva la dipendenza da un dio superiore a tutto. E quel dio non era l’arte. E non lo accetto.
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